Man United – Crystal Palace 1990: la doppia finale più folle della FA Cup
“Correvano su e giù le maglie rosse, le maglie bianche, in una luce d’una strana iridata trasparenza. Il vento deviava il pallone, la Fortuna si rimetteva agli occhi la benda”. Si dice che Umberto Saba avesse visto una sola partita di calcio. Non è vero: ne ha viste di più. Comunque almeno due. Ma una di queste sembra proprio Manchester United – Crystal Palace. Certo Saba non poteva sapere nulla delle galoppate di Pemberton e McClair, né dell’irriducibile Bryan Robson e delle movenze da pantera di Ian Wright. Ma centrava, con la sua asciuttezza, la forza aggregante e gli slanci, epici quanto genuini, del gioco della Triestina e del Padova anni Trenta, che sessant’anni dopo la Coppa d’Inghilterra sembra aver conservato quasi intatti. Col suo corollario di finalità non solo liturgiche, ma anche catartiche, comunque propizie se da qualche parte scalpitano nutrite comitive di hooligans . E con l’energia di una competizione che può permettere a chiunque, perfino ai dilettanti, di battersi contro il Liverpool di John Barnes, nutrendo calciofili di tutte le latitudini in crisi d’identità. Come un rifugio, un’oasi dove abbeverarsi quando si vuole. Soprattutto finchè gli organici non verranno invasi da giocatori e tecnici stranieri.
Manchester United – Crystal Palace si gioca sabato 12 maggio 1990 all’Empire Stadium di Wembley. Come impone la tradizione, di pomeriggio. Dall’alto della tribuna c’è Sir Matt Busby, ignaro di assistere all’avvio di un ciclo in grado di onorare la sua leggenda. E forse di suturare parte delle sue ferite. Ci sono anche i presidenti FIFA e UEFA e Antonio Matarrese per scaldare i motori di Italia ’90. Non solo: perché la finale di FA Cup, edizione numero 109, diventa esame decisivo per la riammissione delle squadre inglesi nelle coppe europee, ponendo fine all’embargo post-Heysel.
Così il Manchester United: Leighton, Ince, Lee Martin, Bruce, Phelan, Pallister, Bryan Robson, Webb, McClair, Mark Hughes, Danny Wallace. E il Crystal Palace: Martyn, Pemberton, Shaw, Andy Gray, O’Reilly, Thorn, Barber, Geoff Thomas, Bright, Salako, Pardew. Da una parte un colosso blasonato e multimiliardario, che non sta messo bene. La stagione è iniziata con una figuraccia (1-5) nel derby contro il City e i tifosi hanno chiesto la testa di Ferguson. Dopo la sconfitta interna col Derby County, sir Alex si è lasciato coinvolgere in una rissa. Ha vissuto anche la zona-retrocessione. E striscioni come “Three years of excuses and it’s still craps”. Il ritorno dopo sei mesi di assenza di Neil Webb è coinciso con la prepotente risalita dello United, che alla fine si è piazzato appena cinque punti sopra la linea di galleggiamento e alla pari proprio col Crystal Palace. Per Sir Alex la vittoria in FA Cup significherebbe poter allattare il progetto. E si presenta a Wembley con un 4-4-2 asimmetrico, azzardando il trio di centrocampo formato da Paul Ince, Bryan Robson e Neil Webb. Mentre McClair è l’arma segreta, l’icona del multitasking.
Dall’altra parte il Crystal Palace, l’underdog e l’anima del borgo londinese di Croydon, che in semifinale ha fatto fuori il Liverpool (dal quale ne aveva presi 9 ad inizio stagione) con un gol di Alan Pardew nell’extra-time. Alla sua prima finale, lo allena l’ex di turno Steve Coppell, che ha rivisitato i classici schemi britannici in chiave mediterranea: difesa con marcature ad personam, libero leggermente staccato. Ed i primi minuti esaltano le sue idee: lo United accenna a una pressione e viene imbarcato in contropiede. Palla inattiva, Pallister non riesce ad arginare O’Reilly, Leighton resta a metà strada e confeziona l’autogol. Adesso Bryan Robson suona la carica: in caso di vittoria, Robbo sarebbe il primo capitano della nazionale inglese a sollevare l’FA Cup per tre volte. E il Manchester domina. Coi tagli di McClair e Wallace, il Crystal viene infilato sempre dalla sua parte sinistra. Incontenibile Neil Webb, tampinato da Shaw. E prima della fine del tempo, proprio da quella fascia, parabola di McClair e un colpo di testa di Robson provoca l’autogol del pareggio. Anche se gl’inglesi, anticipando i comandamenti FIFA, tendono ad assegnare i primi due gol a O’Reilly e Robbo, in quanto autori dei tiri nello specchio.
Torna in campo solo lo United e McClair divora il raddoppio da due metri: ancora cross da destra di Phelan. Poi un tackle tipicamente british di Webb diventa l’assist perfetto per el toro Hughes: dopo un’ora di gioco, 2-1 strameritato. La partita viene rivoltata al 70’: nel Crystal Palace entra un attaccante di grandi numeri e alterne fortune. Si chiama Ian Wright. E’ reduce da due fratture alle gambe, ma non se ne accorge nessuno. Tocca il primo pallone: controllo a gran velocità per evitare Phelan, sterzata di tacco col mancino che sdraia Pallister e destro piazzato sull’uscita di Leighton . E’ uno dei gol più belli della storia delle finali della FA Cup.
Coppell salta dalla panchina si mette a correre: 2-2.
Come nelle migliori tradizioni, una lotta virile e cavalleresca senza risparmio. Banditi calcoli e feroci strategie dilatorie. L’indomito Robbo timbra il palo sul traversone da destra di Webb e si va all’extra-time. L’anglo-nigeriano John Salako lavora una palla stupenda e Leighton s’inchina agli alettoni di Wright : 3-2 per il Crystal Palace.
In un contesto quasi orgiastico, Coppell stavolta rimane fermo, impassibile. Ma si capisce che vorrebbe sgomitare, correre , urlare e correre di nuovo, spaccare tutto. E ripartenza del Palace, tre contro due, ma Andy Gray s’inceppa davanti al portiere. Poi stramazza per i crampi.
Il Manchester adesso è a tre dietro: si è accomodato in panca il centrale difensivo Pallister, dentro una punta. Mentre Coppell porta 9 uomini dietro la linea della palla, Sir Alex gioca un 3-4-3 ibridato, sfruttando le accelerazioni di Wallace tra le linee. Che infatti serve l’assist per lo splendido taglio di Mark Hughes: siamo 3-3 al 113° minuto.
Finita? Neanche per idea. Il masterstroke di Sir Alex è McClair che fa il terzino destro. Testa di Robbo, su assist ancora di Webb: fuori di un soffio. Dall’altra parte corner con spizzata e Leighton si allunga sull’incornata di Bright. Ora è finita davvero: 3-3 e doccia per tutti. Già perché il regolamento della FA Cup non prevede i calci di rigore, stillicidio dell’anima per incartare mesi di partite. Coerentemente con le origini della competizione, che nasce molti anni prima dell’introduzione nel regolamento del penalty. Si ripete fra cinque giorni, stavolta al tramonto. Stesso Wembley. Luogo dello spirito ideale per una finale, figuriamoci se è doppia. E stessi interpreti, tranne uno. Ferguson non ha dimenticato i gol presi : giubilato Leighton, in porta Les Sealey: “Non sono sicuro che Sealey fosse un portiere con la tecnica di Leighton, ma c’era una grande differenza: Sealey aveva fiducia e Leighton no”.
Possono ripetersi le finali, ma non riprodursi le partite. Il replay comincia ispido. La scintilla forse è lo scontro in cui Hughes da terra scalcia Andy Gray. Poi Robson entra da brividi su Shaw. Il portiere Sealey entra in collisione con Bright, che non fa molto per evitarlo . Sono passati solo 6 minuti. Nei primi 45 ci sono 18 falli per gioco scorretto. E dagli spogliatoi esce un altro Manchester. Su una ripartenza, Webb inventa per il taglio stupendo di Lee Martin: 1-0. Il Palace , dopo aver piombato la fascia debole, viene colpito dall’altra parte. Manca mezz’ora ed entra ancora Ian Wright. L’assalto del Palace si concretizza in una serie di inutili palle lunghe in the box, più qualche rimpallo . Anche se Bright prova con i rudimenti delle arti marziali .
Si leva dalle tribune rosse “Que sera, sera”. Può stupire, ma negli ultimi minuti Ferguson non effettua cambi per sgraffignare secondi: “Ricordo anche le sconfitte di Wembley perché ti rimangono addosso come le vittorie. Ogni successo è solo una prova dei sacrifici fatti: lavoro duro, lealtà e fiducia negli uomini che ti stanno vicino. Non ci sono scorciatoie”.
E’ il primo trionfo inglese in assoluto di Sir Alex dopo quelli di Aberdeen. Ne vincerà altre in quello stadio (una dopo aver fatto rasare i capelli a Beckham). Mai sopra le righe, Sir Alex è un raro umanista del 2000 e manager dell’etica, in grado come pochi di scegliere e far ruotare gli uomini. Tanto da poter sovrapporre il suo nome a quello dello United. Con la tenacia di ripartire dopo una batosta.
di Paolo Lazzari